Il Progetto Comunità Amiche della disabilità

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Da qualche anno nel territorio bresciano sotto la spinta di un partenariato composto da una società scientifica (SIDIN, Società Italiana Disturbi del Neurosviluppo) e tre Fondazioni bresciane, (ASM, Congrega e Villa Paradiso), ha preso avvio un progetto trasformativo, che intende essere una leva di cambiamento verso gli scenari del cosiddetto Welfare comunitario: il progetto Comunità Amiche della Disabilità (CAD).

Come spesso accade la “non specializzazione” delle suddette Fondazioni è stata probabilmente di aiuto nel generare qualcosa di nuovo, di non riconducibile alle logiche tradizionali. Non si tratta infatti di un progetto “erogativo”, una sorta di bancomat atto a finanziare “quelli che sono del ramo”, né di un’azione di supplenza benevolente, tesa a mettere una toppa sulle smagliature del welfare statale; le Fondazioni, in sinergia con la società scientifiche, hanno voluto dare vita ad un processo di riflessione piuttosto originale, teso a sparigliare gli assetti tradizionali, ricomponendo soggetti e attori in un quadro inedito e per così dire “orizzontale”.

Il marchio: scopo, metodologia e contenuti

Per analogia all’esperienza del progetto Dementia Friendly Community, messo a punto in Gran Bretagna dall’Alzheimer’s Society, e ripreso in Italia dalla Federazione Alzheimer Italia, il progetto CAD intende sostenere e riconoscere (mediante l’attribuzione di un marchio) l’identità di territori inclusivi, capaci di riconoscersi come Comunità Amiche della Disabilità (CAD); il marchio, destinato agli Ambiti territoriali che intendono affrontare il percorso, è dunque una sorta di leva di cambiamento, in grado di generare processi di trasformazione all’interno di quartieri e paesi in grado di interpretare una serie di indicatori che, letteratura alla mano, costituiscono i markers di una capacità inclusiva.

La creazione del marchio è giunta al termine di un percorso riflessivo e di ricerca (percorso Delphi), che, tenendo conto di elementi valoriali, politici e scientifici, ha definito quali sono i requisiti che consentono ad una città o ad un quartiere di supportare al meglio la vita delle persone con disabilità. L’attribuzione del marchio ad un territorio incentiva/sostiene la creazione di ambienti urbani nei quali le persone con disabilità sono comprese, rispettate, sostenute e fiduciose di poter contribuire alla vita della loro comunità. In una comunità amica delle persone con disabilità gli abitanti tutti sono inclusi e coinvolti, avendo la possibilità di scelta e di controllo sulla propria vita.
Il marchio viene riconosciuto dopo un percorso di analisi su una batteria di domini e indicatori, che a titolo non esaustivo sono i seguenti:

Dominio 1: l’unità territoriale nel suo complesso:

– presenza/accesso di/a un’intera filiera di servizi, da quelli più complessi agli alloggi per la vita indipendente
– presenza di progetti per l’inclusione lavorativa
– rete di trasporti pienamente accessibile e facilitata
– accessibilità umana e relazionale degli esercizi commerciali

Dominio 2: l’istituzione comunale

– evidenza della logica del progetto di vita
– evidenza di azioni di sussidiarietà in grado di coinvolgere sostegni non formali e informali
– conoscenza della popolazione delle persone con disabilità e livello di coinvolgimento nella coprogettazione

Dominio 3: l’associazionismo

– presenza di sistemi di advocacy
– presenza di persone con disabilità negli organismi di rappresentanza

Dominio 4: i servizi professionali

– evidenza della struttura del progetto di vita
– presenza di iniziative ad alto tasso di innovazione a scopo inclusivo
– presenza di iniziative e sostegni in ogni dominio di Qualità di Vita
– gestione delle transizioni tra cicli di vita e tra servizi
– presenza di servizi per la salute mentale delle persone con DI

Mediante la metodologia del marchio (labelling) si riesce così a dare il via a due azioni diffuse:

– l’azione formativa, rivolta in primo luogo ai dirigenti, e poi a tutte le persone coinvolte nella costruzione delle comunità inclusive, con contenuti variabili a seconda delle istituzioni coinvolte;
– l’azione di costruzione sociale, veicolata attraverso la valutazione della batteria di indicatori, e conseguente messa a punto di un report di possibili azioni trasformative.

In questa prospettiva, la caratteristica del marchio è analogica, e non categoriale, ovvero esso esprime, anche attraverso elementi grafici, il livello di “amicizia” che l’unità territoriale esprime nei confronti della persona con disabilità. In questo modo ha preso avvio una vera e propria operazione di policy, che, partendo dal basso, ha inteso offrire alle comunità locali (oggetto di “analisi” e “certificazione”) uno strumento di acquisizione di consapevolezza e una concreta possibilità di dialogo riguardo al delicatissimo tema del Progetto di Vita per la persona con disabilità.

Il punto di partenza: lo Stato che si prende cura (la disabilità nel Welfare tradizionale)

A partire dagli anni Settanta, in Regione Lombardia come in tutta Italia, l’introduzione dei meccanismi tipici del welfare ha agevolato l’affermarsi del modello clinico nella organizzazione e nel funzionamento istituzionale dei Servizi, in sostituzione del modello paternalistico, fondato sui valori morali e religiosi del secolo precedente. E’ stata ed è la prima era dei diritti, tutta centrata sul diritto alla salute e alla riabilitazione.
In ragione delle esigenze di standardizzazione che costituiscono l’essenza dello Stato del benessere, il modello clinico, centrato sulla linearità del processo diagnosi-trattamento, si è progressivamente imposto in ambiti dove in passato vigeva il modello relazionale, centrato sulla promozione della solidarietà.

In realtà, quando una persona è in difficoltà la comunità territoriale è coinvolta a diverso titolo in questo processo: se le molteplici esperienze di disabilità sono in radice unificate dall’esperienza della solitudine e dell’emarginazione, allora è l’esperienza comunitaria, in ogni sua componente affettiva, relazionale e persino territoriale, a costituire la risorsa in forza della quale la persona con disabilità può mantenere un’identità e garantirsi la qualità della vita di cui ha diritto.
Pertanto, i bisogni delle persone con disabilità e delle loro famiglie dovrebbero allora essere sempre e in ogni caso riferiti al quadro più ampio della comunità locale. In questo senso il destinatario diretto del servizio non è il singolo individuo e la sua disabilità, letta attraverso la lente del binomio diagnosi/riabilitazione, ma è la comunità tutta che è chiamata ad occuparsene solidalmente.

Non c’è da nascondersi il guadagno complessivo che una tale azione raggiungerebbe sul piano delle politiche territoriali, che da un sistema di welfare connotato tradizionalmente da disparità e interventi insufficienti, passerebbe ad una funzionalità autoregolativa, in grado di risvegliare risorse al plurale e coniugarle continuamente sui bisogni, in una sorta di sistema ad alta sensibilità che solo la comunità può continuamente nutrire ed esercitare.
E’ necessario allora fare qualche passo indietro, a che si possa andare avanti. Dall’intervento a posteriori, spesso tardivo, comunque pregiudicato da assetti clinici e assistenzialistici, ad un’azione a priori, diretta allo sviluppo della comunità locale, in modo tale da sprigionare un significativo dispiegamento della solidarietà civile. Solo così si renderebbe possibile un nuovo welfare su base comunitaria, disponibile a lavorare dietro le quinte, ricostruendo lentamente le condizioni attraverso le quali la comunità funziona e, funzionando, cura.

Il paradigma esistenziale nei servizi alla persona

Uno slittamento di paradigma è in atto nei sistemi di protezione: dalla logica clinica della “soluzione tecnica dei problemi”, emancipazione del gigantesco e ricco Welfare State, alla logica esistenziale, che ha cura della vita, in una più povera, ma potente prospettiva generativa.

I sistemi professionali di presa in carico, infatti, in ogni ambito in cui si esprimono, corrono il rischio di centrare la loro azione sui loro stessi servizi o “trattamenti”, piuttosto che sulla persona. L’operatore mette in campo una prestazione riabilitativa, che ha come coordinate la propria competenza, da un lato, e il deficit della persona, dall’altro, con modesto o al limite nessun riguardo sul percorso complessivo della persona, nell’ambito dei cicli di vita e della progettualità che richiedono. Perché accade questo? Qual è il meccanismo in base al quale i professionisti sembrano ignorare le risorse, i desideri e le istanze proprie e profonde della persona, generando interventi centrati sul problema?

Si può affermare che il mondo dei servizi ha traslato il modello clinico, idoneo alla risoluzione di problemi tecnici (come la rottura di un femore o la cura di un tumore), al campo dei problemi esistenziali, come ad esempio la disabilità, la vecchiaia, la solitudine e la depressione. Per dare respiro agli interventi professionali e valorizzare il ruolo delle comunità è necessario entrare in un altro paradigma, che potrebbe essere definito paradigma esistenziale. Cambiando il paradigma, cambiano gli obiettivi e i soggetti: da esiti clinici e funzionali, che richiedono l’esclusività del ruolo specialistico dei professionisti, a esiti personali, che necessitano del contributo ben più ampio dei sostegni non formali e informali.

Lo scenario: verso il Welfare comunitario

Da parecchi anni in Italia si discute della riforma del sistema di Welfare, che da apparato statale diventi un sistema complessivo di solidarietà, basato sulla sussidiarietà orizzontale. Insomma, occorre allontanarsi dall’idea che per rispondere ai bisogni sia sufficiente predisporre una serie di servizi professionali, per giunta tendenzialmente stabili, già dati una volta per tutte. Esistono anche i sostegni informali, o per meglio dire esiste la prossimità: solo valorizzandola si trova la chiave per dare sostanza al cosiddetto welfare community, o Welfare di seconda generazione (Welfare 2.0).

Il tradizionale sistema di Welfare, tutto centrato sulle prestazioni professionali, ha sottratto alle comunità locali il senso di solidarietà tra uomini. Per recuperare il terreno perduto, è necessario che il progetto di vita della persona con disabilità non coinvolga solo i professionisti, ma tutta la Comunità. Per farlo, le équipe di lavoro devono convogliare il contributo delle reti informali dentro i progetti personalizzati.

In questo scenario, la crisi economica è un’opportunità, una sfida, e non una sciagura. La crisi, infatti, ha tolto ai servizi l’illusione delle coperture economiche infinite, provocando la ricerca dell’unica risorsa infinita che il mondo ha a disposizione, ovvero l’altruismo e la generosità delle persone (oltre che la loro creatività). Se non si vuole semplicemente tagliare, arretrando i servizi e ridimensionando i diritti, se si desidera moltiplicare i sostegni, e non indebolirli, è forse possibile spendere in modo uguale, ma in modo che quell’uguale diventi moltiplicativo e generativo.

Le prime Comunità Amiche della Disabilità

L’Ambito IX della Bassa Bresciana è stato il primo a ricevere il marchio. In seguito, ha dato avvio ad un percorso di co-progettazione, nell’ambito del Piano di Zona, valorizzando gli esiti del rapporto di ricerca, e mettendo al centro delle future politiche il Progetto di Vita delle persone con disabilità, mediante un’ampia gamma di sostegni formali e non formali. Attualmente sono avviati altri tre percorsi di certificazione, dei quali due nel territorio lombardo (Valle Sabbia e Valle Camonica), ed uno in Friuli Venezia Giulia.

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